Fashion e artigianato locale: eppure il mio "Report" dice sì

Ho visto il servizio su Moncler nella puntata di Report di domenica sera e letto diversi commenti sull'argomento nella mia rete di contatti. Questione ardua, perchè si sconfina nell'etica individuale. Non mi ritengo un animalista per antonomasia visto che odio un po' tutte le classificazioni e non ho mai avuto animali domestici. Tuttavia sono fra quelli che ritiene tutto tranne che umano chi se la prende con gli animali per sfogare le proprie meschinità. Detto questo, non ne parlerò oltre: mi pare più pertinente soffermarmi sull'aspetto economico.

Riguardo al caso Moncler, ho letto le interessanti riflessioni di Riccardo Esposito sul tema della differenza fra prezzi di costo e listino, così come Rudy Bandiera ha espresso le sue perplessità rispetto a quelle che nella puntata di Report gli sono parse congetture, per quanto verosimili. Posso essere d'accordo o meno con Rudy sull'argomento, quello su cui invece lo abbraccio e ci brindo in pieno è quando afferma che l'attenzione dovrebbe vertere anche sui valori positivi che alcuni marchi infondono grazie ai loro prodotti, elevandone la percezione sul consumatore finale. Si, cavolo, qui ha pienamente ragione. E non è una frase fatta, perché ho la fortuna di vederlo sul campo ogni giorno.

Ecco perchè in mezzo a tanti esempi che leggo in rete su sfruttamento di minori e animali, con storie che vanno dalle ex repubbliche russe fino alla Cambogia, voglio raccontare la mia esperienza fuori dal coro e a due passi da Bologna.

La mia realtà vive di tante aziende della moda di cui veramente poche hanno la produzione all'interno dello stabilimento principale: la realizzazione e il confezionamento avviene ancora conto terzi. Qualche simpaticone sui loro canali social ha ovviamente tirato fuori la questione cinese (che da pratese conosco bene e in aspetti fin troppo scomodi) ragionando su un semplice teorema: se produci capi di abbigliamento di qualità un po' più alta di Zara e H&M, non sei una firma però la tua azienda cresce, allora vuol dire che stai facendo per forza qualcosa di male, cioè quantomeno sfrutti i cinesi come fanno praticamente tutti. Sentimento popolare semplice e chiaro, che ovviamente nasce da tante situazioni reali, ma sbagliato se applicato per partito preso.

Non è detto che se diverse aziende lo fanno la situazione debba per forza comprendere l'intero sistema moda italiano.

Molti fornitori di aziende di moda con cui ho a che fare quotidianemante sono piccole realtà del territorio, artigiani, per lo più famiglie: alcune di esse devono sostemere ritmi di produzione alti  (si sa che con il fast fashion è così) ma lavorano sodo mettendoci tutta la professionalità possibile in un mestiere che probabilmente si tramandano da generazioni, provando ad adattarsi agli adeguamenti tecnologici (B2B, sistemi di fatturazione, foto) spesso caldeggiati dai clienti più importanti.

I produttori più lungimiranti riescono a raggiungere economie di scala anche grazie ad alcuni fattori che sono alla base del rapporto con i fornitori. Per dirne alcuni: la garanzia di diverse commesse nel tempo che diventa per i fornitori sinonimo di sostenibilità; un impegno di magazzino pari a zero visto che la merce passa costantemente dal fornitore al produttore e nei migliori casi una certa puntualità nei pagamenti.
Una semplice formula che non si può applicare dall'oggi al domani, ma che diventa sinonimo di serietà e trasparenza lato B2B (fornitori) e B2C (consumatori) se messa in pratica sistematicamente nel corso degli anni: il rapporto fra costo e listino non più mai essere 30 a 1000 come pare sia nel caso di Moncler.
Certo, il prezzo finale del capo tende comunque ad alzarsi, ma il prodotto ha un ciclo di vita più lungo e c'è tutta l'anima modaiola di una ricerca lunga e faticosa che alla fine viene premiata anche dall'utente finale. Lo vedo dai numeri delle vendite sui sistemi B2B di Mantica, dove attraverso il web ultimamente si sono aperti mercati come quello cinese: qui il made in Italy forse inizia a tirare più del made in China proprio per i valori qualitativi che trasmette.

Parlo di un'isola felice o solo di qualche esempio fortunato? Non so. Dico solo che le realtà capaci di valorizzare l'artigianato locale esistono ancora e da ciò che vedo sono ancora di più rispetto a qualche anno fa, visto il livellamento in basso di certi prodotti sul mercato e una conseguente attenzione del consumatore sulla qualità e l'identità del prodotto.  Alcuni di questi esempi sono documentati da una bella bibliografia online e offline (esempio per tutti il caso Imperial e il suo modello di fashion a km 0), altre magari non hanno avuto rilevanza su quotidiani e portali ma rientrano pienamente in questo filone. Il problema della tracciabilità di tutta la filiera ovviamente rimane attuale, come ha fatto notare Paola Bottelli nel suo pezzo sul blog de Il Sole 24 Ore: la speranza è che questo modo di lavorare non si perda con il conto terzi del conto terzi ecc ecc.

Da appassionato e assiduo frequentatore di ecommerce di moda prima ancora che addetto ai lavori, spero che tutto questo non diventi però troppo di moda, un po' come la filiera corta nel cibo, per cui quello che fino a ieri andavi a prendere nell'orto della nonna oggi lo paghi come un piatto prelibato in nel miglior ristorante di un giudice di Masterchef. 

Dal possibile sfruttamento del fornitore il tema si sposterebbe più su quello del consumatore, in nome di quei valori e paletti che in realtà dovrebbero essere normali. Proprio come dovrebbe essere naturale non sfruttare il lavoro minorile e maltrattare poveri animali indifesi.   

MB

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